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Benvenuti nella casa de Lemoire - tel: 3203697675
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Sin dagli albori della produzione mitologica ellenica, la poliedrica figura di Elena di Sparta risulta indissolubilmente vincolata all’aspra contesa che impegnò per un decennio Achei e Troiani e che condusse all’inevitabile presa di Ilio. L’irremeabile dama è nota quale “casus belli” del sanguinoso conflitto, nonché quale consapevole vittima dell’impulso amoroso e strumento della determinazione divina. Peculiare della cultura greca arcaica, è l’esistenza di un’inscindibile concomitanza tra l’intervento del nume e l’azione e la volontà umane. Creatura dotata di una bellezza straordinaria e temibile, adultera, algida, tracotante e denigrata in molteplici fonti letterarie; nella tradizione aedica (Iliade e Odissea) viene dipinta quale lasciva meretrice. Venne accusata di aver abbandonato lo sposo, l’eroe Atride Menelao, l’amata figlia Ermione e il talamo coniugale, decidendo di seguire Paride Alessandro – l’avvenente principe barbaro – sino in patria. La mente obnubilata dalla passione indottale da Cipride, in balia di un dissennato accecamento.
Sin da fanciulla tale abbacinante bellezza le arrecò innumerevoli disagi: gli antichi ricordano anche il (meno noto) ratto compiuto, sulle rive del fiume Eurota, dal re ateniese Teseo, ormai prossimo alla cinquantina. Secondo alcune varianti del mito, ella venne rapita e violata durante la fanciullezza, intorno ai 10-12 anni, durante una danza rituale presso il complesso religioso di Artemide Orthia, divinità sincretica che annoverava le peculiarità dell’illibata cacciatrice ellenica – spesso associata alle selve e ai luoghi incolti – e attributi desunti da Orthia, arcaico nume di presunta origine dorica, tutelare della giovinezza e della fertilità. La giovane principessa venne rinchiusa nella Rocca di Afidna dal crudele e infatuato sovrano ateniese e successivamente liberata dai fratelli, Castore e Polluce. L’epico oltraggio subito da Elena durante la pubertà – nel periodo di maggior importanza sociale, in conseguenza alla preziosa fecondità acquisita e celebrata dalle giovani donne, fondamentale al perpetrarsi biologico del gruppo lacedemone – non si sopì mai nella memoria e nell’orgoglio dei fieri spartani. Una ferita che mai si cicatrizzò interamente, un ingegnoso alibi utilizzato pragmaticamente per giustificare ogni successiva aggressione o razzia ai danni dell’Attica, in particolar modo quelle che avvennero durante gli ambasciati anni che caratterizzarono la guerra del Peloponneso.
La figura di Elena cela in sé sin dalla nascita connotazioni divine: figlia illegittima di una delle innumerevoli passioni amorose di Zeus, che – sotto le mentite spoglie di un cigno – concupì la regina spartana, Leda. Secondo altre versioni, invece, Zeus si sarebbe invaghito della dea Nemesi, la giustizia punitrice, la quale – assumendo le sembianze di un’oca – avrebbe invano tentato di fuggire dalle insistenze del divino pretendente. La presenza dell’oca – animale di natura ctonia, connesso alla fecondità e ai culti dedicati alla Grande Madre – potrebbe fungere da nefasto auspicio delle leggendarie vicende che avrebbero coinvolto Elena. Nondimeno potrebbe essere connessa al culto di cui la regina spartana fu oggetto, in epoche remote, proprio nell’austera Laconia. Elena – in conseguenza alla suddetta copula – nacque da un uovo, partorito o custodito da Leda, sino alla fatale schiusa. Un duplice parto gemellare, sorella del divino Polluce e dei mortali Castore e Clitemnestra, legittima prole del re spartano, Tindaro.
Dalla tradizione tragica emerge un atteggiamento conflittuale nei confronti del personaggio, un’Elena sempre ambigua, ma che acquisisce caratteri quasi paradossali nella vasta produzione euripidea. Il tema della guerra di Troia, delle sue cause (tra cui possiamo annoverare il ratto dell’avvenente sovrana) e delle sue deleterie conseguenze, fu trattato diffusamente e prolissamente in età classica dai maggiori drammaturghi dell’epoca, anche al fine di esorcizzare un altro scontro che sconvolse e lacerò il mondo ellenico: la logorante guerra del Pelopponeso.
Nell’Agamennone di Eschilo, Elena divenne strumento del volere divino, una «funesta Erinni inviata da Zeus» al fine di condurre Ilio alla rovina, come castigo per la colpa commessa da Paride, il quale tradì vergognosamente l’ospitalità offerta da Menelao. Ciò riflette anche la concezione ellenica: per i greci, infatti, la violazione della “xenìa” rappresentava un’esecrabile colpa. La radice stessa del nome della vituperata creatura si rivelò ferale presagio di sventure e degli ineluttabili, atroci avvenimenti che sarebbero seguiti al suo rapimento. “Helénan”, sinistro monito: Elena, rovina di navi (“helénas”); Elena, rovina di uomini (“hélandros”); Elena, rovina di città (“heléptolis”). Nelle Troiane di Euripide (415 a.C.), Andromaca associa il suo nome alla desolazione e al tormento, elencando i diversi padri che la generarono:
«O germoglio di Tindareo [Elena, figlia di Tindaro], tu non sei figlia di Zeus, ma di molti padri io dico che tu sei nata: primo il Dèmone vendicatore, poi l’Astio, quindi l’Assassinio e il Lutto e quanti altri orrori nutre la terra».
Un’indisponente Elena entrerà sostanzialmente in scena solo nel terzo quadro del dramma, quando si assisterà a un suo discutibile agone verbale con la sua accusatrice, Ecuba, Madre sofferente, inconsolabile ma risoluta vedova di Priamo e regina di Troia. Una sorta di esercitazione retorica tra le due donne, con argomentazioni incongruenti da entrambe le parti, che quasi compromettono l’integrità del discorso, discostandolo dai toni pungenti e angoscianti del resto della narrazione: Elena tenta di discolparsi, accusa Ecuba in quanto genitrice di Paride, di esser stata artefice e causa del conflitto, avendo inoltre sottovalutato il sogno preconizzante che la ammoniva da tale infausta nascita. La colpa primigenia, dunque, andrebbe ricercata nella “Tyche”, nell’ineludibile Fato. Al contrario Ecuba taccia Elena di avidità, vanagloria e ambizione, di aver compiuto una scelta consapevole e ponderata, affrancando il divino da una responsabilità individuale e soggettiva.
Solo pochi anni dopo, con la messa in scena dell’Elena, si potrà discernere un profondo capovolgimento del personaggio, un’Elena umile, fedele, un perseguitato esempio di virtù, in Egitto, alla reggia del defunto Proteo. Una versione che la discolpa dall’atto del tradimento: l’inviolata regina di Sparta, infatti, al momento del rapimento sarebbe stata sostituita da Era con un “eidolon”, un simulacro, un’inconsistente e ingannevole idea. Metafora dell’assurdità dell’agire umano: un luttuoso scontro consumatosi per un fantasma. L’opera sembra riflettere le contraddizioni politiche di un’Atene stremata e ormai prossima alla caduta.
Euripide seguirà un filone innocentista e il dramma, forse nel vano tentativo di omaggiare e placare gli avversari spartani, si concluderà alla stregua di una commedia con il suo peculiare lieto fine. Egli prenderà spunto per la sua Elena egizia dalla Palinodia del poeta siculo Stesicoro, della cui produzione, a oggi, non rimangono che esigui frammenti. Platone narra nel Fedro di come egli fosse stato obbligato a una ritrattazione, per volere della stessa Elena, capricciosa divinità venerata a Sparta. Essa, infatti, profondamente offesa per la diffamazione operata dal poeta nella prima stesura dell’opera, lo avrebbe reso temporaneamente cieco e apparendogli in sogno, lo avrebbe poi successivamente consigliato su una novella versione, che l’avrebbe riscattata dall’ingiusta accusa di adulterio. Dopo l’avvenuta scrittura di due palinodie, Stesicoro avrebbe placato l’ira dell’affascinante nume, recuperando così la propria vista.
La corrente innocentista che già aveva sedotto autori come Esiodo, Stesicoro ed Erodoto, venne in seguito abbracciata anche dal filosofo sofista Gorgia, il quale – proprio alla vigilia della rovinosa caduta di Atene – compose un’Apologia di Elena, un articolato discorso in cui affrancava la sfortunata principessa, sedotta dalle argomentazioni del principe troiano, da qualsivoglia responsabilità, rintracciando una sorta di ineluttabilità negli avversi avvenimenti che sarebbero seguiti. Artefici sarebbero stati la “Tyche” e il capriccio divino.
La documentazione letteraria moderna, altresì, ci trasmette un vasto ed eterogeneo repertorio che continuamente analizza l’accaduto, oscillando tra costrizione dei numi, necessità e tradimento consapevole. Tra le opere esemplificative è possibile annoverare il melodramma settecentesco Paride ed Elena, di Ranieri de’ Calzabigi (musicato da Christoph Gluck); La belle Helene di Jaques Offenbach (1864) e L’Elena egizia. Quest’ultima valente versione nacque quale proficua conseguenza del provvidenziale sodalizio che intercorse tra il compositore Richard Strauss e il poeta e drammaturgo austriaco Hugo von Hofmannsthal. L’opera andò in scena nella seconda metà del ‘900 e vanta una trama estremamente articolata, ironica, amara e complessa. Protagonista un’incantevole Elena, colpevole ma redenta grazie al complice aiuto di Etra – potente maga e ninfa amata da Poseidone – e a un Menelao particolarmente confuso e ignavo.
Intensa e affascinante la narrazione del poeta Ghiannis Ritsos. Egli indagò e approfondì acutamente la melanconica senescenza di Elena, la memoria – vana, ormai priva di qualsivoglia facoltà consolatoria – sino all’agognata liberazione dalle spoglie umane e mortali: «Ho sonno, – poter chiudere gli occhi, dormire, non vedere né fuori né dentro, dimenticare». Il nome della divina Elena venne inesorabilmente associato all’ineluttabile caducità della condizione umana, all’irrimediabile sfacelo operato dall’imperturbabile scorrere del tempo.
«È ormai trascorso il tempo delle rivalità; si sono inaridite le passioni. A poco a poco le cose hanno perso d’importanza, si sono svuotate; d’altronde ebbero mai importanza alcuna? – flaccide, vuote; noi le riempivamo di paglia e crusca perché assumessero forma e consistenza, solidità e fermezza, – I tavoli, le sedie, i letti su cui giacevamo, le parole; – sempre vuote come borse di tela; come sacchi dei mercati; – già dall’esterno indovini il contenuto: patate o cipolle, grano o granoturco, mandorle o farina».
È plausibile supporre che la fatale e controversa figura mitologica abbia radici e origine divine; molteplici sono le variazioni del mito che alla sua morte prevedono l’apoteosi di Elena tra gli Olimpi (come nell’Oreste di Euripide). Il modello antesignano dovrebbe essere ricercato proprio in Laconia, negli onori cultuali di cui Elena avrebbe beneficiato in due importanti santuari lacedemoni, menzionati anche da Pausania: Terapne e Platanista. Sono individuabili evidenti parallelismi con un’antica divinità panellenica associata alla natura, alla vegetazione e ai riti di passaggio. Il Platano era l’albero sacro a lei dedicato, connesso anche a rituali nuziali spartani. Anche il ratto di cui ella fu oggetto trova riscontro con alcune arcaiche tradizioni laconiche: la sposa veniva simbolicamente rapita dalla casa paterna. Tale pratica sembra essere associabile anche a rituali di iniziazione e di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta, cui il radioso nume soprassiedeva.
Quantunque le innumerevoli variazioni mitologiche abbiano verosimilmente trasmigrato questa splendente divinità arcaica a un sfera terrena e corruttibile, l’iconica figura ha conquistato nei secoli un ruolo mutevole e ambiguo, nonché una diffusa notorietà. La sua immagine si è arricchita di sfumature e peculiarità diverse, conferitegli dai molteplici substrati culturali che ha attraversato nel corso dei secoli, sino a giungere ai giorni nostri, raggiante e indisturbata. Connotati spesso criptici, contrastanti e ambivalenti, riflesso di società contraddittorie ed eterogenee, ma tutt’ora la sua carismatica figura è circondata da un’abbacinante, austera e indifferente aura divina, capace di ammaliare o ripugnare, ma che certamente non lascerà impassibile un acuto osservatore.
Fonte: Laura Fontanesi, https://lacittaimmaginaria.com/la-condanna-di-elena-di-sparta-unabbacinante-bellezza/, 27 Gennaio 2020
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